Il Settecento letterario italiano (1980)

Il Settecento letterario italiano, in Aa.Vv., Immagini del Settecento in Italia, a cura della Società italiana di studi sul secolo XVIII, Bari, Laterza, 1980, con scritti di Walter Binni, Paolo Casini, Mario A. Cattaneo, Paolo Chiarini, Rosa Maria Colombo, Romeo De Maio, Furio Diaz, Mario Di Pinto, Lia Formigari, Enrico Fubini, Nicolao Merker, Sergio Moravia, Amedeo Quondam, Paolo Rossi, Lionello Sozzi, Roberto Venuti, Lucio Villari.

IL SETTECENTO LETTERARIO ITALIANO[1]

II risultato di maggior rilievo cui è approdato, in quest’ultimo decennio, l’ampio dibattito critico sulla letteratura italiana del Settecento svoltosi fino a questi ultimi anni può essere facilmente individuato nell’aumentato e, in certo senso, definitivo accertamento della ricchezza, varietà, complessità e densità di significanza storica di questo importante periodo della nostra storia letteraria, in un sempre piú stringente raccordo fra storia letteraria e storia culturale, civile, politica, sociale. Accertamento cui hanno contribuito (favorendo, tra l’altro, il definitivo abbandono della tradizionale delineazione del Settecento letterario entro l’unica cifra del razionalismo e della restaurazione del gusto e quindi come periodo privo di autentici e propri sviluppi di poesia) le proposte di nuove forme di studio e di sistemazione storico-critica della letteratura settecentesca da me formulate (per esser poi realizzate nel corpo della mia stessa trattazione storiografica) in apertura alla storia del Settecento letterario italiano nella Storia della letteratura italiana dell’editore Garzanti nel 1968, sulla base piú lontana dei miei numerosi studi settecenteschi e di una relazione riassuntiva-programmatica letta al Convegno di italianistica di Magonza nel 1962. Proposte che, come è noto, tendono ad una «storicizzazione integrale» del periodo, da attuare sulla base di uno studio della poetica come momento di commutazione in tensione e direzione artistica e poetica di problemi letterari e di problemi e condizioni storiche, culturali, politiche, sociali, e come essenziale avvio alla comprensione storico-critica dei prodotti poetici[2]. E quindi, mediante una piú attenta ed articolata considerazione della civiltà letteraria del Settecento nelle sue molteplici componenti in sviluppo (riflessione sulla poesia, esperienze e tendenze di gusto anche figurativo e musicale, attività creative) tutte valutabili e unificabili nell’angolatura della poetica e cioè nei vivi e concreti nessi con i vari aspetti della storia, in uno sviluppo complesso e graduato, che va dall’Arcadia alle soglie del classicismo romantico di primo Ottocento, ma, si badi bene – contro continuità tutte arcadiche inaccettabili –, non solo con una pregnanza culturale e storica entro lo stesso periodo arcadico-razionalistico che, oltre tutto, contiene indubbiamente spunti e germi preilluministici, ma con forti, essenziali innovazioni e un vero salto di qualità all’altezza di metà secolo, con la piena maturazione dell’illuminismo e poi, a fine secolo, con la crisi complessa e fermentante dello stesso illuminismo, dal cui seno emergono la tendenza preromantica e quella neoclassica nelle loro late posizioni di fondo (comunque non solo letterarie e di gusto) e nelle loro frequenti reciproche ibridazioni.

A tali proposte e alla loro realizzazione di articolazione, di sviluppo e periodizzazione, nell’ultimo decennio hanno risposto sia una loro fruizione piú o meno dichiarata e comunque un recepito stimolo non ancora estinto, sia proposte nuove nel senso, variamente accettabile, di una ancor maggiore storicizzazione, sia anche obiezioni – specie dal côtè piú sociologico – nei confronti di una storicizzazione che può apparire (in tale prospettiva) troppo legata a considerazioni preminentemente culturali-letterarie, o nei confronti di singole sue fasi periodizzanti (particolarmente quella del preromanticismo già discusso fra ’60 e ’70 dal Petronio e poi nell’ultimo decennio dallo Jonard e da altri[3]). Ma per ora non pare che si siano precisate delle proposte e linee alternative davvero consistenti e capaci di storicizzare, senza sommergere lo svolgimento storico-letterario in un percorso storico di cui esso diverrebbe solo ripetitiva rappresentazione: tale è il pericolo della linea storica prospettata da Gaetano Compagnino (a introduzione dei due volumi settecenteschi della Letteratura italiana, Roma-Bari, Laterza, 1973) dove è decisamente rifiutata ogni interpretazione della letteratura settecentesca sulla base di categorie ritenute solo letterarie e se ne propone invece una ricostruzione in chiave esclusivamente sociologico-culturale (linea su cui non sempre sembrano muoversi poi gli estensori delle parti piú letterarie di quell’opera, Giuseppe Savoca e Guido Nicastro) o, su di una prospettiva analoga (anzi ancor piú duramente insistente sul carattere dipendente e tutto sovrastrutturale della storia letteraria), quella di Bartolo Anglani nel saggio Letteratura e transizione: il primo Settecento italiano, in «Lavoro critico», 1976.

Né hanno assunto valore di vere linee storiografiche altre prospettive metodologiche attualmente vive fortemente, in campo generale, ma scarsamente esperite (per il Settecento) anche in casi di singoli autori e di singoli testi.

Ma per valutare il reale, concreto cammino degli studi sul Settecento nell’ultimo decennio, occorre esaminare in maniera piú ravvicinata le singole fasi e gli autori della letteratura settecentesca nell’arricchimento ed eventuale consolidamento o spostamento di valutazione che ne sono risultati.

Occorrerà cosí innanzi tutto ricordare le nuove e fruttuose indagini che in questi ultimi anni – accogliendo e sviluppando in parte sollecitazioni espresse dal Fubini e piú recentemente da me, ma anche con spinte nuove emerse ancor piú recentemente – sono state dedicate ai momenti e tratti salienti e ai personaggi di maggiore spicco della prima, complessa e ricca fase della cultura arcadico-razionalistica: ricerche che si sono, nell’ultimo decennio, prevalentemente concentrate sull’area napoletana e romana, e in particolar modo sulla prima (anche in accordo allo sviluppo degli studi sul Vico e sui suoi rapporti ambientali di cui ha riferito in questo convegno Paolo Rossi), segnata già nel tardo Seicento[4] dallo sviluppo di una cultura di respiro europeo sotto la spinta dell’emergente «ceto civile», come il fitto lavoro di storici e storici della filosofia, quali Badaloni, C. Ghisalberti, Mastellone, Ricuperati e altri ha dimostrato.

In quest’ambito romano (il che vuol dire poi l’Accademia dell’Arcadia nella sua costituzione centrale) e napoletano i maggiori contributi sono venuti da Antonio Cipriani (Contributo per una storia politica dell’Arcadia settecentesca, in «Arcadia – Atti e memorie», 1971), da Michele Rak (Condizione critica e fantasia poetica. Un tratto della storia delle idee letterarie nell’Italia del secolo XVIII, in «La Rassegna della letteratura italiana», 1971) e soprattutto da Amedeo Quondam dei cui numerosi lavori vanno qui citati anzitutto il volume su Cultura e ideologia di Gianvincenzo Gravina (Milano 1968), l’edizione del 1973 degli Scritti critici e teorici del Gravina per la collana laterziana degli «Scrittori d’Italia» e il lungo contributo Dal Barocco all’Arcadia nel VI volume della Storia di Napoli (Napoli 1970). Al Quondam in particolare si deve una piú attenta ed organica valutazione della personalità e dell’opera del Gravina decisamente collocato in posizione centrale nella cultura e nel dibattito di poetica e di teoria letteraria (con forte fondo ideologico) tra fine Seicento ed inizio Settecento e di cui sono state messe sempre in maggior rilievo – anche attraverso il reperimento e la pubblicazione di un notevole materiale inedito – le componenti democratiche, antigesuitiche, l’ideale letterario e tragico improntato a un classicismo severo ed antieversivo, in forte contrasto con la linea conformistico-moderata del Crescimbeni destinata a prevalere nel successivo sviluppo dell’istituzione arcadica: contrasto che ebbe il suo culmine nel cosiddetto «scisma» romano del 1711, ricostruito minutamente dal Quondam sulla base di una folta documentazione inedita.

Mentre in questi ultimi anni, a partire dall’Arcadia primosettecentesca (certo la piú vera attiva e storica Arcadia, la piú meritevole di una simile attenzione), proprio da parte degli studiosi citati e di altri si sono svolte ricerche che investono l’intero arco secolare della vicenda dell’accademia arcadica, con una piú forte attenzione alle caratteristiche della politica culturale elaborata nella sua centrale romana, specie negli anni 1711-1740, esplorandone, col citato studio del Cipriani e soprattutto con gli studi del Quondam, i meccanismi ideologici e istituzionali di freno e di controllo, la linea di centralizzazione egemonica ed integralistica del lavoro intellettuale, il legame organico col potere ecclesiastico, l’impoverimento dell’originaria profondità culturale (anche se cosí forse si trascura come storicamente la stessa vittoria crescimbeniana corrisponda ad una praticabilità non priva di risultati tutt’altro che indecorosi e di una socievolezza non solo aristocratica che favorí elementi dello sviluppo preilluministico). E certo con il migliore dissodamento e con l’assicurazione di questo alveo generale acquistano maggior rilievo quelle figure che rendono fecondamente contraddittorio tale panorama, quelle personalità di scrittori e intellettuali che nel primo Settecento assumono una posizione polemica e anticonformistica aperta a nuove esigenze: come soprattutto Antonio Conti, la cui attività di filosofo e scienziato a livello europeo è stata particolarmente evidenziata nel 1969 dal Badaloni e i cui testi teatrali, poetici e teorici – studiati da Giovanna Gronda (della quale notevole è, nel periodo da noi esaminato, il saggio Tradizione e innovazione: le versioni poetiche di Antonio Conti, nel «Giornale storico della letteratura italiana» del 1970) e poi da Marco Ariani, che, di recente, ha dedicato al Conti scrittore e letterato una vasta ed acuta monografia: Drammaturgia e mitopoiesi. Antonio Conti scrittore, Roma 1977 – son visti appunto come testimonianza notevolissima e significativa della crisi ideologica e formale dell’Arcadia e come consapevole e personale tentativo di superarla attraverso l’elaborazione di una complessa poetica neoclassica, in cui torna a fruttare l’esperienza graviniana, già attraversata dalle prime tensioni illuministiche.

Una ricognizione, infine, dell’attività dell’accademia arcadica nell’ultimo trentennio del secolo è stata proposta da Lucio Felici e Giandomenico Falcone, che ne hanno evidenziato il tentativo di recupero di una cultura piú aggiornata e di spazi letterari e teatrali nuovi anche nei confronti della fase romana di Vincenzo Monti (L. Felici, L’Arcadia romana tra illuminismo e neoclassicismo, in «Arcadia – Atti e memorie», 1971; G. Falcone, Poetica e letteratura della seconda Arcadia, in «La Rassegna della letteratura italiana», 1976, e L’aspirazione al teatro tragico nell’Arcadia romana degli anni 1770-1780, in «Studi Romani», 1978).

Meno hanno fruttato invece gli studi sul principale poeta dell’epoca arcadico-razionalistica, il Metastasio, dopo il momento di nuove acquisizioni e delineazioni, con angolature diverse, avvenuto ad opera mia (L’Arcadia e il Metastasio, Firenze 1963), e, sull’apertura cosí efficace del saggio del ’50 di Claudio Varese, ancora nei saggi del Raimondi e del Gavazzeni, cui molto non hanno aggiunto il pur apprezzabile saggio stilistico di Cesare Galimberti sull’Olimpiade (La finzione del Metastasio, in «Lettere Italiane», 1969) e il capitolo piú incerto di Guido Nicastro nella Letteratura italiana Laterza.

Se guardiamo ora, nell’area delle ricerche recenti, alla zona piú propriamente illuministica, constateremo che, accanto al fiorire continuo degli studi piú direttamente volti alle condizioni storico-sociali e alla cultura filosofica e storica dell’illuminismo oltre ad edizioni di opere[5] e ad assaggi sulla cultura letteraria, sull’estetica e sulla scrittura degli illuministi (fra cui saggi di Mario Fubini, Per una rilettura di prosatori del Settecento, in Nuove idee e nuova arte nel ’700 italiano, Atti dei Convegni Lincei, Roma 1977, e di Giuseppe Petronio, Letteratura e scienza nell’età dell’illuminismo, in «Problemi», 1976) anche in occasione di significativi convegni dell’Accademia dei Lincei dedicati al Settecento (significativi per l’importanza sempre piú assunta dal secolo dei Lumi – specie quello del ’75 pubblicato nel ’77, su Nuove idee e nuova arte nel ’700 italiano), notevoli soprattutto in questi ultimi anni sono stati l’indagine e il lavoro di edizione di testi concernenti il caratteristico ed importante filone della letteratura libertina di secondo Settecento. In questo settore di nuovo interesse può rientrare la recente edizione della Lulliade, il poemetto eroicomico del Calzabigi, curato da Gabriele Muresu (Roma 1977), che ha messo in evidenza appunto il tipo di scrittura «libertina» e «sperimentale» e l’originalissimo disordine che caratterizzano quest’opera animata da una volontà di rottura e di disobbedienza nei confronti della tradizione letteraria e fondamentale come documento della tendenza antimetastasiana della riforma del melodramma sostenuta dal Calzabigi.

Entro questo nuovo interesse per la cultura illuministica di tono «libertino» si situano l’edizione della Raccolta Universale delle opere di Giorgio Baffo a cura di Elio Bartolini (Milano 1971), l’ampia antologia dedicata da Carmelo Musumarra agli scritti di Domenico Tempio (Opere scelte, Catania 1969) seguita a breve distanza dalla pubblicazione dei primi due volumi dei Testi e Studi tempiani dovuta a S. Calí e a V. Di Maria (Catania 1970), i nuovi contributi anche editoriali su Casanova (Chiara, Baccolo, Spagnoletti) e soprattutto l’ampia monografia del Muresu su G.B. Casti (Le occasioni di un libertino, Messina-Firenze 1973), importante contributo alla delineazione del percorso complessivo e contraddittorio del Casti (di cui ora il Muresu ha riedito, con commento, Gli animali parlanti, Ravenna 1978) e del suo libertinismo a sfondo soprattutto edonistico, ma non privo di significative implicazioni ideologiche di matrice illuministica. Sicché il libro del Muresu, mentre puntualizza la linea anticonformista, antiaccademica (e indocile alla strumentalizzazione politica) dell’opera castiana, si pone anche piú in generale come invito e stimolo ad un’analisi globale del ruolo dell’intellettuale libertino nel Settecento italiano, la cui storia è in larga parte ancora da scrivere.

Nella zona fra sviluppi illuministici e insorgere delle tendenze preromantiche e neoclassiche si son venuti, in questi ultimi anni, raccogliendo un notevole numero di saggi, di edizioni con commento e introduzioni di vario valore (a volte spesso piú intese ad una illustrazione storica e ideologica che non ad una coerente integrazione di tale necessario approfondimento con una capacità di valutazione critico-letteraria): l’edizione dei Romanzi di Alessandro Verri a cura di Luciana Martinelli (Ravenna 1975), quella dei Viaggi di Enrico Wanton del Seriman a cura del Pizzamiglio (Milano 1977), la conclusione, nel ’68, della pregevole edizione commentata del Meli a cura di Giorgio Santangelo, quella delle Poesie del Rezzonico a cura di Elvio Guagnini (Ravenna 1977) o la monografia di Gérard Luciani (la sua ponderosa thèse del ’74 su Carlo Gozzi, autore di cui si può notare una notevole ripresa teatrale) o il saggio di E. Sala di Felice su Felicità e morale in P. Verri (Padova 1970); mentre per l’indagine sui critici del secondo Settecento (dopo la ponderata e utile silloge del Bigi, il volume Dal Muratori al Cesarotti, tomo IV, Critici e storici della poesia e dell’arte nel secondo Settecento, Milano-Napoli 1969) son venuti a portare contributi l’importante saggio di Vitilio Masiello sul Denina («Belfagor», 1969), il libro di Franco Betti, Storia critica delle lettere virgiliane (Verona 1972), in cui è tentata una completa ricostruzione della varia fortuna critica della famosa opera bettinelliana, l’edizione di un volume di Opere scelte del Baretti (Torino 1972) a cura di Bruno Maier (con un’introduzione che puntualizza efficacemente i diversi rapporti del Baretti con l’Arcadia, l’illuminismo e il preromanticismo, considerato come il naturale punto di approdo del tipico individualismo barettiano), l’edizione di inediti barettiani curata da Franco Fido (Lettere sparse, Torino 1976; «La Filippa trionfante», intermezzo musicale di Giuseppe Baretti, in «Giornale storico della letteratura italiana», 1976), nonché l’agile monografia barettiana di Maria Luisa Astaldi (Milano 1977) e il saggio di Bartolo Anglani, Il mestiere della metafora. Introduzione al Baretti, in «Lavoro critico», 1977[6].

Notevole anche il nuovo sviluppo delle ricerche sul giornalismo settecentesco con contributi, fra i molti, o generali (quello di Giuseppe Ricuperati in Aa.Vv., La stampa italiana dal Cinquecento all’Ottocento, Roma-Bari 1976) o su singole città (R. Barbisotti, Una gazzetta settecentesca a Cremona, in «Archivio storico lombardo», 1969; M.A. Timpanaro Morelli, Persone e momenti del giornalismo politico a Firenze dal 1766 al 1799 in alcuni documenti dell’Archivio di Stato di Firenze, in «Rassegna dell’Archivio di Stato», 1971; L. Felici, Il giornalismo romano fra Arcadia e Neoclassicismo, in «Studi Romani», 1971, fino al periodo giacobino cui è dedicato, per Genova, il volume di L. Morabito, Il giornalismo giacobino genovese 1797-1799, Torino 1973) o su singoli giornali come il «Sognatore italiano», attribuito al Gozzi, edito da M. Cataudella (Bologna 1975) e oggetto di vari studi, o su singoli autori (come Pietro Verri cui Ettore Bonora ha dedicato, nella ricordata miscellanea lincea Nuove idee e nuova arte ecc. un interessante intervento, Una parentesi giornalistica di Pietro Verri dopo il «Caffè»).

Nel campo della critica goldoniana si sono, come è ben noto, intrecciate e scontrate a lungo (in anni gravitanti intorno al centocinquantenario del 1957) diverse prospettive di interpretazione, tra le quali, rispetto a quella del «teatro puro» o a quella piú unilateralmente politico-sociale, è venuta meglio delineandosi una tendenza (cui non mancò, mi pare, di contribuire anche una serie di miei interventi in occasione appunto del centocinquantenario, raccolti poi in Classicismo e neoclassicismo, e base per il profilo goldoniano nella Storia della letteratura Garzanti del ’68, poi ampliato in Settecento maggiore del ’78) di interpretazione storica e sociologica, ma sensibile insieme ai fatti specifici teatrali che ha stemperato l’eccessiva accentuazione data dal Givelegov e dal Dazzi alla rigida programmazione della riforma goldoniana come unica battaglia sociale e prerivoluzionaria. Su tale linea si ritrovano anzitutto gli studi di Mario Baratto e di Franco Fido (già precedentemente attivi nell’ambito goldoniano): del Baratto le «Letture» degli Innamorati e del Todero (in Studi in onore di L. Russo, Pisa 1974, e in « Rivista italiana di drammaturgia», 1977) e del Fido la raccolta di saggi goldoniani (Guida al Goldoni, Torino 1977) che, nel suo complesso, offre al lettore una suggestiva (e perciò anche discutibile) pluralità di prospettive di analisi, diversamente impostate da un punto di vista metodologico, ma tendenti tutte alla «descrizione diacronica» (e quindi anche e soprattutto storica) dell’evoluzione del teatro goldoniano. Ed è in un generale ambito di forte interesse storico che si debbono calcolare poi la interessante ricerca sulla concreta situazione dell’impegno editoriale del Goldoni nel suo legame organico con l’ambiente teatrale e nella sua alleanza con gli «uomini piú progressisti del patriziato e della società veneziana tutta», condotta da Ivo Mattozzi (C. Goldoni e la professione di scrittore, in «Studi e problemi di critica testuale», 1972) o lo stimolante anche se discutibile (almeno nella misura in cui vi si rileva un’eccessiva e troppo spesso immediata dipendenza dei concreti giudizi di valore sull’opera goldoniana dalla posizione ideologica dell’autore) volume di Arnaldo Momo, Goldoni e i militari, Padova 1973.

Entro angolature metodologiche diverse si sviluppa il recentissimo contributo di Jacques Joly, Le désir et l’utopie (Clermont Ferrand 1978) che ha affacciato (nella parte dedicata al Goldoni) l’ipotesi della probabile presenza di una componente utopica nella concezione goldoniana della società, mentre da tempo, secondo una prospettiva metodologica di tipo strutturalistico-teatrale si è mosso Kurt Ringer (specie nell’Introduzione all’edizione einaudiana delle commedie da lui curata nel 1972) che, avvalendosi appunto di un metodo largamente debitore alla semiologia e allo strutturalismo, è approdato a risultati interessanti e in parte nuovi, in sede di ricostruzione tecnica dei meccanismi del teatro goldoniano, senza peraltro riuscire a storicizzare tali risultati in rapporto alla società teatrale del Settecento.

Tra le numerosissime indagini su singoli momenti ed aspetti della vicenda intellettuale, umana, poetico-teatrale del Goldoni (spesso intrecciate e sollecitate dalle nuove regie goldoniane di varia consistenza, originalità e attendibilità critica), particolarmente significative appaiono quella di L. Zorzi (Goldoni, les adieux, in «Comunità», 1969) e quella di Riccardo Scrivano (Goldoni tra Francia, Italia, Venezia, in Saggi di letteratura italiana in onore di G. Trombatore, Milano 1973), dedicate ambedue, con vario taglio critico, a proporre (sulla scia anche dell’interpretazione registica data da Luigi Squarzina di Una delle ultime sere di carnevale) «una lettura – come dice lo Scrivano – non solo della faccia tranquilla e giocosa del Goldoni, ma anche del suo risvolto non raramente malinconico e riflessivo»: quel risvolto che spesso vien fatto emergere anche unilateralmente, persino con rilievi addirittura drammatici, in alcune letture registiche recenti e che certo comunque risponde, per contrasto, ai vecchi ritratti critici e registici di un Goldoni tutto bonario, alle negazioni della «divina malinconia» che il Croce aveva posto a limite dell’intero spessore umano-poetico del Goldoni.

Per quanto riguarda il poeta dell’illuminismo (e poi dell’incipiente neoclassicismo) in Italia, il Parini, dopo l’ampio e complesso dibattito sino alla fine degli anni Sessanta (Fubini, Binni, Caretti, Petronio, fra gli altri) che ha portato (pur nella loro diversità) a interpretazioni di base assai consistenti specie per la delineazione dei motivi di fondo dello sviluppo storico-poetico della personalità pariniana (interpretazioni su cui alcuni, come il Petronio, con una nuova edizione del suo Parini e l’illuminismo lombardo[7], sono ritornati con nuove precisazioni, e a cui può aggiungersi nel 1977 un saggio d’insieme di N. Jonard, Parini ou le poète couronné, in «Rivista di letterature moderne e comparate», che ritiene di indicare la vicenda pariniana come esemplarmente rappresentativa delle condizioni dell’intellettuale settecentesco), lo studio, specie all’inizio del decennio considerato, si è spostato piú fortemente in campo filologico con risultati importanti (e con discussioni) cui sono giunti Raffaele Amaturo, cui si deve la risoluzione dell’arduo problema dell’ordinamento critico dei manoscritti della Notte (Congetture sulla «Notte» del Parini, Torino 1968), e soprattutto Dante Isella che, oltre a fornire un’ottima edizione critica del Giorno (Milano-Napoli 1969) e poi delle Odi (ivi, 1975), ha anche condotto un accurato studio delle varianti della Notte giungendo a proporne la «struttura aperta», riconducibile, a suo avviso, al prevalere delle forze centrifughe di un’ispirazione lirica sensibile al «particolare» sulla forza centripeta dell’ispirazione unitaria del poema.

Mentre poi la critica recente ha dato un impulso particolare all’indagine sugli elementi figurativi dello stile pariniano cui già piú generalmente aveva pur guardato Domenico Petrini e successivamente io avevo pur ricondotto l’attenzione specie in direzione della svolta neoclassica nel diagramma dello sviluppo pariniano (ora ripresentato nel primo capitolo del Settecento maggiore cit.).

Indagine cui hanno variamente contribuito Sergio Antonielli (si deve a lui anche un equilibrato profilo pariniano, Firenze 1973), che nel saggio Il gusto figurativo del Parini (A proposito del «Messaggio») («Belfagor», 1969) ha rilevato come «il carattere costante della versificazione pariniana» sia costituito dalla «subordinazione sempre piú consapevole degli effetti che possiamo genericamente definire musicali a quelli visivi e figurativi», Pietro Frassica (Appunti sul linguaggio figurativo del Parini dal «Giorno» ai «Soggetti», in «Aevum», 1976) e soprattutto Gennaro Savarese, Iconologia pariniana, Firenze 1973, le cui ricerche hanno mostrato la necessità di distinguere nell’iconologia poetica del Parini anche «componenti diverse da quelle che piú solitamente si invocano a proposito di quella poesia (pompeiana, winckelmanniana, neoclassica in genere)» e di risalire quindi a schemi figurativi precedenti, maturati in diverse situazioni storiche e di gusto, rilevando come nei Soggetti ed appunti per pitture decorative il poeta si ricollegasse all’iconografia classica attraverso la determinante mediazione di tutta la sterminata letteratura di «geroglifici», imprese ed emblemi che, nata nel Rinascimento, aveva straordinariamente proliferato nell’età barocca. Notevoli infine anche le ricerche comparatistiche come quella di Lionello Sozzi, Petit maître e giovin signore (in Aa.Vv., Saggi e ricerche di letteratura francese, Roma 1973).

Della notevole e varia attività critica che in quest’ultimo decennio si è svolta intorno all’Alfieri ci si dovrà qui limitare a indicare le linee interpretative essenziali alla cui determinazione, consentendo la conoscenza dell’intero itinerario redazionale delle singole opere, ha fondamentalmente contribuito l’accresciuta disponibilità in edizione critica dell’opera alfieriana, frutto dell’intensificata attività filologica dei collaboratori del Centro nazionale di studi alfieriani di Asti animata da Carmine Jannaco[8].

E sempre nel campo dell’attività filologica ed editoriale sono da ricordare l’edizione delle tragedie dovuta a Gianna Zuradelli (Torino 1977) e quella del tomo I delle Opere (Milano-Napoli 1977) con testo e commento a cura di Arnaldo Di Benedetto, con introduzione e scelta di Mario Fubini (documento postumo, e ultimo in ordine di tempo, ma non certo d’importanza, della fondamentale attività critica settecentesca dell’illustre studioso da due anni scomparso e alla cui memoria, in questa occasione, rivolgiamo un commosso ricordo). Lavoro editoriale e filologico, cui sono legati il libro di Carmine Jannaco, Studi alfieriani vecchi e nuovi (Firenze 1974), che con le sue ultime indagini ha fortemente contribuito alla ricostruzione critica della genesi della Cleopatra e del Saul, i saggi di L. Sannia Nowé, Dall’idea alla tragedia. Nascita della forma tragica nel «Filippo» alfieriano (Padova 1976), e di G.A. Camerino, Elaborazione dell’Alfieri tragico. Lo studio del verso e le varianti del «Filippo» (Napoli 1977) e lo studio della Merope in Capitoli alfieriani (Roma 1977) di Roberto Salsano.

Quanto alle ricerche piú specificamente rivolte all’analisi della natura e del carattere dell’opera alfieriana (a cui si sono intrecciati anche in quest’ultimo decennio i miei studi alfieriani raccolti nel ’69 in Saggi alfieriani e il capitolo dedicato all’Alfieri in Settecento maggiore cit.), esse si sono recentemente volte anzitutto al capolavoro autobiografico della Vita. Cosí, sulla complessità della vicenda personale, intellettuale e insieme stilistica dell’Alfieri, quale traspare dalle pagine della Vita, si sono variamente impegnati Folco Portinari (autore anche di un lavoro generale e piú debole sulle tragedie) con il saggio «Per forza di struttura» dopo una lettura della «Vita» di Vittorio Alfieri, in «Sigma», 1968; Gianluigi Beccaria, I segni senza ruggine. Alfieri e la volontà del verso tragico, in «Sigma», 1976; Neuro Bonifazi, L’operazione autobiografica e la «Vita» di Vittorio Alfieri, in «L’approdo letterario», 1976; e piú ampiamente Riccardo Scrivano, Biografia e autobiografia. Il modello alfieriano, Roma 1976, che ha efficacemente delineato il diagramma dell’intera vicenda alfieriana nella sua inscindibile unità artistico-esistenziale, evidenziando l’ineliminabile sottofondo autobiografico dell’opera poetica dell’Alfieri.

E in questo rinnovato clima di attenzione alla Vita va anche inscritta la presentazione postuma dell’ampia e acuta monografia di Giacomo Debenedetti, Vocazione di Vittorio Alfieri (redatta tra il 1943 e il 1944 e pubblicata a Roma nel 1977), in cui, sulla base di un’attenta e penetrante lettura in chiave psicanalitica dell’opera alfieriana, troviamo proposta l’ipotesi che la Vita sia da interpretare come una sorta di necessario antefatto del racconto complessivamente svolto nell’insieme delle tragedie dell’Alfieri, nel senso che le figure che popolano il suo teatro, «cosí plastiche e vive, cosí creature», sarebbero anche «stati d’animo capaci finalmente di arrivare ad atti che egli aveva temuto di non poter compiere mai».

Secondo una simile prospettiva, direttamente attinta dalla psicanalisi, si è mosso recentemente Jacques Joly (Le désir et l’utopie, già citato per Goldoni) che ha tentato, nella parte dedicata all’Alfieri, di ricondurre l’intera evoluzione stilistico-drammaturgica del teatro alfieriano ad un meccanismo di progressiva proiezione esterna dei conflitti interiori del poeta. Né va dimenticato, nello studio delle tragedie alfieriane, l’emergere di un certo, anche se generico, impegno di tipo strutturale, con prevalenti agganci psicologici-religiosi, nella lettura del Getto (Struttura del Saul, in «Lettere italiane», 1972) o, piú generalmente, nel saggio di Mario Trovato, A proposito della struttura del «Polinice» di Vittorio Alfieri, in «Le ragioni critiche», 1976.

Altro filone della ricerca attuale sull’opera alfieriana risulta quello dell’Alfieri comico cui si riferiscono i contributi di G. Santarelli (Studi e ricerche sulla genesi e le fonti delle commedie alfieriane, Milano 1971) e di Vincenzo Placella in un volume (Alfieri comico, Bergamo-Milano 1973) che ha consolidato ulteriormente la rivalutazione della componente e della produzione «comica» alfieriana a suo tempo operata da Fiorenzo Forti, Mario Apollonio, Ezio Raimondi e piú recentemente da Riccardo Scrivano.

Mentre un loro spazio hanno le recenti ricerche sulle peculiarità stilistiche e sintattiche delle opere dell’Alfieri di Silvio Abbadessa (Misogallismo ed espressionismo linguistico dell’Alfieri, in «Studi e problemi di critica testuale», 1976) e di Guido Santato (Stile e ideologia dell’Alfieri politico, in «Lettere italiane», 1978).

Infine, nella zona di ultimo Settecento, sarà da indicare il volume di Anna Teresa Romano Cervone (La scuola classica estense, Roma 1975) dedicato ad un’ampia e minuta esplorazione antologica del «classicismo estense» dalla metà del secolo fino alla sua dissoluzione nel clima e nel gusto romantico, e soprattutto sarà da ricordare il notevole libro di Marco Cerruti, Neoclassici e giacobini, Milano 1969, nel quale, attraverso un esame ravvicinato dell’attività e dell’opera di scrittori come Alessandro Verri, Giovanni Fantoni, Edoardo Calvo ed altri, si sperimenta, in maniera assai interessante, un approccio complessivo ai problemi e ai diversi esiti della crisi graduale ma irreparabile del riformismo illuministico nella cultura e letteratura italiana dell’ultimo trentennio e si affronta (secondo una prospettiva attualmente diffusa e certo interessante, molto praticata dal Cerruti che par volerla estendere a tutto il secolo attraverso le indicazioni di due sue antologie settecentesche) il problema piú generale degli intellettuali scrittori, del loro ruolo, del loro rapporto con il potere, con la società, problema che trova poi tanto sviluppo negli studi storici e storico-letterari sul periodo giacobino, specie in rapporto con lo studio del giovane Foscolo, ma che mi pare ormai esulare dal piú preciso cerchio settecentesco.

A tale proposito e a conclusione di queste note e appunti sugli studi di italianistica sul Settecento nell’ultimo decennio (cosí ridotti da ferrei limiti di spazio), mi si permettano una constatazione e un avvertimento legati proprio anche alle ultime indicazioni.

La constatazione incoraggiante di un approfondimento crescente di condizioni e situazioni reali e sempre piú concrete di intellettuali scrittori come gruppi e come singoli nel loro rapporto con il potere, con le corti, con le proprie istituzioni e mezzi di diffusione (accademie, raccolte), con il pubblico (specie in ambito teatrale), nel miglior chiarimento di particolari legami associativi (l’utilità, ad esempio, anche per la storia dei letterati del libro di Carlo Francovich sulla massoneria nel Settecento: si pensi alle varie vicende di un Crudeli, di un Rezzonico, di un Monti) e nel migliore radicamento di autori e forme letterarie in culture e condizioni socio-economiche anche locali (il saggio del Marchi sui poemi didascalici veronesi fra tradizione letteraria e situazione agraria veronese, il saggio del Beniscelli sul Casaregi e le condizioni concrete dell’Arcadia genovese, ecc. ecc.).

Ma insieme (organicamente e radicalmente insieme) anche l’avvertimento (a volte del resto già accolto e realizzato) di non appiattire, nella figura dell’intellettuale scrittore, lo scrittore sull’intellettuale, e di farne invece valere concretamente le specifiche qualità, mezzi e funzioni artistiche e letterarie, e quindi, oltre alle sue tecniche essenziali, quella specie di moltiplicazione che dall’arte e poesia viene ai contenuti e alle funzioni di rappresentatività storico-politica, sociale, culturale. Si pensi al grande Alfieri e alla forza della sua poesia e arte che esalta e amplia il suo messaggio libertario al di là delle precise condizioni della libertà aristocratica entro cui esso pur nasce, valendo cosí, come è valso, per gli intellettuali dissidenti sotto il dominio napoleonico, o, a tanta distanza di tempo, per gli intellettuali antifascisti sotto il fascismo.


1 Alla preparazione della presente relazione hanno contribuito Giandomenico Falcone e Paolo Marolda, collaboratori della sezione settecentesca della mia rivista «La Rassegna della letteratura italiana».

2 Per il metodo sotteso ai miei studi sulla letteratura settecentesca (di cui ricordo qui solo i volumi e le raccolte in volume, in ordine cronologico: Commento alle Odi del Parini, Firenze 1938; Vita interiore dell’Alfieri, Bologna 1942; Preromanticismo italiano, Napoli 1948, Bari 19743; L’Arcadia e il Metastasio, Firenze 1963, 19682; Classicismo e neoclassicismo nella letteratura del Settecento, Firenze 1963, 19763; Il Settecento letterario in Storia della letteratura italiana, Milano 1968; Saggi alfieriani, Firenze 1969; Settecento maggiore: Goldoni, Parini, Alfieri, Milano 1978) rinvio al mio volume Poetica, critica e storia letteraria, Bari 1963, 19808. La relazione di Magonza ricordata è raccolta, oltre che negli Atti del relativo convegno, nel mio volume cit. L’Arcadia e il Metastasio. Per i vivi e molteplici raccordi fra il Settecento e gli scrittori protagonisti del primo Ottocento rinvio in genere ai miei volumi e saggi foscoliani, montiani, leopardiani (per Leopardi in particolare ricordo, come ulteriore forma di studio del Settecento in rapporto a fermenti ideativi e stilistici del secolo originalmente ripresi e sviluppati in chi della letteratura settecentesca si alimentò piú profondamente, il saggio del ’62 Leopardi e la poesia del secondo Settecento in La protesta di Leopardi, Firenze 1973, 19804); rinvio al mio volume Poetica, critica e storia letteraria, Bari 19808.

3 Del Petronio si veda in proposito Illuminismo, Preromanticismo, Romanticismo e Lessing in Dall’illuminismo al verismo, Palermo 1962, e l’intervento al Congresso di Magonza (e la mia replica, ora in Classicismo e neoclassicismo cit., e nella mia prefazione a Preromanticismo italiano cit., 1974). Quanto allo Jonard si tratta di ritorni un po’ ossessivamente insistenti a proposito di vari autori preromantici o meno e soprattutto il drastico scritto Una nozione che non esiste, il «Preromanticismo», in «Problemi», 25-26, 1971.

4 Di quella zona dell’ultimo trentennio del secolo in varie zone d’Italia è stata accolta la formula di prearcadia da me adoperata (e studiata concretamente, soprattutto per la Toscana e la Lombardia) anche in profili storico-letterari (come quello di A. Asor Rosa, Firenze 1972), mentre la formula «arcadico» e «arcadico-razionalistico» si estendeva in molti casi anche al campo delle arti figurative, e, viceversa, la «componente» rococò (in base ad un mio studio del ’60) veniva piú largamente indagata e reperita proprio in campo letterario, lontano però dalle globalizzazioni rococò di certe linee stilistiche piú forti in anni precedenti.

5 Fra queste le edizioni galianee (le Opere a cura di F. Diaz e L. Guerci, Milano-Napoli 1975; Del dialetto napoletano, a cura di E. Malato, Roma 1970) e l’edizione del Diario del Biffi a cura di G. Dossena, Milano 1976. Inoltre è da ricordare l’edizione del Risorgimento del Bettinelli a cura di S. Rossi (Ravenna 1976).

6 Sulla teorica e la critica d’ispirazione razionalistico-neoclassica, ricordiamo i saggi di Giuliano Ercoli, Francesco Algarotti e la nuova critica d’arte nella seconda metà del Settecento, in Nuove idee e nuova arte cit., e di Paolo Marolda, La discussione sul melodramma nel «Trattato del Teatro» di F. Milizia, in «La Rassegna della letteratura italiana», 1976.

7 Già da me ampiamente discusso in una recensione sulla «Rassegna della letteratura italiana», 1961, ripubblicato in Classicismo e neoclassicismo cit., pp. 313-321.

8 Di alcune di queste edizioni ricordo le mie schede e recensioni sulla «Rassegna della letteratura italiana» e ricordo l’uso da me fatto delle varianti del finale del Filippo in Poetica, critica e storia letteraria.